Le buone intenzioni premiano?
- giuseppe taranto
- 16 dic 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 20 dic 2024

Vi è mai capitato di trovarvi in un momento particolarmente impegnativo, per così dire, e di volerlo raccontare a qualcuno, così giusto per “alleggerirvi” un po’, per condividere quella sensazione di frustrazione che avete in quel momento, e poi sentirvi rispondere : «Eh, purtroppo questi periodi capitano a tutti. Ti capisco. Vedrai che andrà tutto bene!»
Ecco, questo è un esempio di buone intenzioni espresse malissimo e in questo capitolo capiremo come questa formula consolatoria non solo non è efficace, ma addirittura potenzialmente dannosa per la relazione e per la persona che in quel momento avrebbe bisogno di sostegno.
Nella formula che vi ho portato come esempio ci siamo cascati in tanti, cioè nella voglia di voler confortare qualcuno pensando che il modo più efficace potesse essere quello della comprensione, quello di far capire che si sapeva di cosa si stesse parlando e di far arrivare il messaggio che si offriva la possibilità di condividere il peso di quel momento poco piacevole.
Come dicevo prima, l’intenzione è nobilissima e sicuramente nella maggior parte dei casi lo abbiamo fatto perché davvero ci credevamo e per l’affetto che si ha per quella persona in particolare.
Purtroppo, l’esecuzione non è sullo stesso livello dell’intenzione e vi spiego il perché.
Partiamo dall’assunto che le parole usate sono tutte parole “positive”, ovvero che manifestano compassione, vicinanza e condivisione, ma il paradosso risiede proprio nel fatto che in quel momento emotivo specifico, l’intenzione positiva rischia di non essere utile al nostro interlocutore e questo perché in quei momenti, nella quasi totalità dei casi, si è in una condizione di egoismo delle emozioni, ovvero non vogliamo che quello che stiamo provando sia lo stesso di altre persone, prese a caso e che neanche conosciamo, e in quel momento vogliamo essere gli unici a star male e vorremmo sentircelo dire. In sostanza, vogliamo essere al centro dell’attenzione.
Proponendo, invece, formule come “sono cose che capitano a tutti” non facciamo altro che sminuire inconsciamente lo stato emotivo di quella persona attraverso una generalizzazione del sentimento, cosa che è davvero poco utile se si vuole supportare lo stato emozionale.
Un altro errore, quindi, è il “ti capisco”. Credo che più o meno tutti noi abbiamo detto almeno una volta nella vita a qualcuno una cosa del genere, perché davvero capivamo o semplicemente come frase fatta giusto per rispondere qualcosa (perché, è bene ricordare, che il nostro cervello gestisce mal volentieri il vuoto. Nei prossimi capitoli torneremo su questo argomento). Per cui, posso davvero capire la spontaneità nel pronunciare questa frase, ma devo anche rendermi conto che una cosa del genere devo dirla quando realmente ho la piena comprensione della situazione; in caso contrario faccio meglio a sforzarmi di non dire proprio nulla.
Cosa comporta quindi questa espressione? Facciamo chiarezza. Se io dico “ti capisco” a qualcuno che mi sta esponendo il suo malessere e quella stessa persona sa perfettamente che anche io ci sono passato e quindi conosco il sentimento che sta provando, non ci sono errori e la frase la possiamo pronunciare con l’intenzione di farci carico di parte del peso che il nostro amico, parente, coniuge, ecc., sta portando con sé. In questo caso, poi, sarebbe anche molto utile per il nostro interlocutore che oltre alla manifestazione di comprensione ci fosse anche un tentativo di alleggerire quel carico, ma di questo nel parleremo più avanti.
Il terzo inciampo, riguarda un altro modo di generalizzare la questione, ovvero attraverso il classico “vedrai che andrà tutto bene”. In questa frase troviamo la voglia di positività e, al contempo, la più celata (anche inconsciamente, se vogliamo) volontà di non prendere posizione e lasciar cadere il discorso nella speranza che la cosa si sistemerà da sola. In questa frase, purtroppo, c’è molta superficialità perché non si porta alla luce la vera natura del malessere, quasi come se volessimo evitare l’argomento e volessimo liberarcene.
Ripeto, magari lo diciamo perché realmente crediamo che le cose andranno a migliorare e lo auguriamo con tutto l’affetto che abbiamo verso quella persona. Ma se scegliamo di usare quella espressione con l’intenzione di dare un aiuto concreto, mi spiace dirlo, ci sono buone probabilità che ciò non accada.
Riassumendo un po’ quanto detto fino ad ora. La generalizzazione e l’inclusione in un gruppo di persone che manifestano un malessere, espresso nella frase “questi periodi capitano a tutti” potrebbe generare una risposta del nostro interlocutore del tipo “chi se ne importa che capitano a tutti. A me sta capitando adesso e ci sto male!”.
Una versione più utile potrebbe essere “hai ragione, è un momento brutto e si vede che ci stai male. Purtroppo è una cosa abbastanza comune”. Questa è una delle formule, ma ce ne sono anche altre, l’importante è che al centro del discorso ci sia la persona che avete di fronte, che in quel momento sente il bisogno di essere l’unico con un malessere comune.
Invece, al posto del “ti capisco” che sembra tanto sbrigativo quanto poco personale, si potrebbe adottare un ben diverso “posso comprendere il tuo stato perché come sai mi ci sono trovato anche io”, nel caso in cui davvero abbiamo avuto la stessa esperienza, se non molto molto simile; oppure optare per “non posso capire come ti senta davvero, e si vede che ci stai male”, o “posso appena immaginare cosa provi perché vedo che la cosa ti far stare male”. Queste sono formule che hanno il medesimo obiettivo, offrire supporto e condivisione focalizzandosi sul sentimento della persona e non sulla propria esperienza, della quale al nostro interlocutore, in quel momento importa davvero poco a meno che non sia lui/lei a chiedervi di parlarne.
In ultimo, al posto del generico “vedrai che andrà tutto bene”, che può facilmente essere replicato da chi in quel momento non vede soluzioni con “ma tu cosa ne sai di come andrà a finire! Hai la sfera magica?!” (forzando un po’ una risposta cattiva), si può optare per una formula più propositiva, anche per spostare il focus dell’attenzione dal problema alla soluzione, dicendo “come posso aiutarti a stare meglio?”, “cosa posso fare per aiutarti?”, o anche “come pensi di risolvere questa situazione, hai già delle idee?”. Nel caso in cui non notiamo risposta ad un atteggiamento propositivo, pensiamo sempre di restare più sul vago con “se hai bisogno di parlare o vuoi sfogarti, io sono qui per te” e lasciarci in un abbraccio che, se il nostro interlocutore non ha difficoltà con il contatto fisico, fa sempre bene.
Per concludere, quando qualcuno vi apre al suo mondo e vi coinvolge nei suoi malesseri, se non sono patologici e se avete davvero voglia di essere di aiuto, ricordate di mettere sempre lui al centro dei vostri pensieri in quel momento, di usare le parole giuste nel modo più utile.
E vedrete che la buona intenzione e la giusta dose di tecnica linguistica saranno già da sole il premio.



Commenti